La piva riscoperta – conversazione con Gino Pennica

15 Febbraio 2020

Una conversazione con Gino Pennica

(a cura di Luca Benatti) 

 

L.B. Parliamo della Piva: qualche cenno sulla sua provenienza e sulle caratteristiche tecniche? 

G.P. La Piva rientra nella grande famiglia delle cornamuse europee. Le cornamuse dell’Italia settentrionale che sono giunte fino a noi sono di origine molto antica: il baghèt delle valli bergamasche, la musa (usata per accompagnare il pinfro, una sorta di oboe popolare) e diffusa specialmente tra le provincie di Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova e infine la Piva emiliana.  Tutti questi strumenti vengono poco per volta soppiantati o sostituiti dall’organetto e dalla fisarmonica, strumenti assai versatili dal punto di vista musicale e soprattutto meno esigenti dal punto di vista della cura e manutenzione. Gli esemplari superstiti della Piva sono stati ritrovati alla fine degli anni  ’70 del ‘ 900 prevalentemente nelle alte valli appenniniche, in prossimità del crinale montano che segna il confine tra le province di Piacenza-Reggio-Parma con quelle di La Spezia-Genova-Massa Carrara. Numerose testimonianze letterarie, indicano che in passato, l’area di diffusione e utilizzo della Piva, si estendesse all’intera pianura padana. La piva è costituita da una canna del canto (scella), ad ancia doppia come l’oboe e da due bordoni (burdoun) ad ancia semplice come il clarinetto, con funzione di accompagnamento. Le tre canne sono inserite in un otre di pelle di capretto conciata (baga, carner) e rivoltata con il pelo all’interno. 

 

L.B. come si è giunti alla ricostruzione dello strumento? 

G.P. Nel 1978 Bruno Garulli, appassionato ricercatore di tradizioni orali di Reggio Emilia rinviene a Mossale (PR) una Piva appartenuta a Giovanni Jattoni (1869-1938) ma ormai non più funzionante. La sua ricerca continua, provando a rinvenire e studiare altri strumenti superstiti ed entrando in contatto con alcuni suonatori di piva (ormai anziani e non più attivi) per raccogliere informazioni circa l’utilizzo e la funzionalità. Solo nel 1983 lo strumento di Giovanni Jattoni viene messo a mia disposizione per tentare una riproduzione fedele e anche funzionante. Anche questo strumento riprodotto presenta  dei problemi ma grazie al contributo fondamentale di Franco Calanca (che rielabora lo strumento e rende le diteggiature più precise e agevoli) la Piva viene definitivamente recuperata dall’oblio in cui rischiava di scivolare. 

 

L.B. il repertorio della Piva è strettamente legato a quello dei balli popolari, come vi siete occupati di questo?

G.P. Sul finire degli anni Settanta andiamo a cercare notizie su musiche e balli nei paesi del reggiano, del modenese e del bolognese, chiedendo informazioni nelle osterie e nei luoghi di ritrovo. Conosciamo suonatori e ballerini e instauriamo con loro un rapporto di fiducia e stima, entriamo nelle loro case , registriamo i loro racconti, le loro musiche, impariamo i loro passi. Con questo tipo di approccio nel tempo  abbiamo raccolto informazioni sui balli arcaici, eredi dei riti primordiali legati alla terra: i Spécc o Saltèe (saltati) Stach o Stachè (staccati), in cerchio, figurati, collettivi. Sono balli vivaci, molto saltellati e faticosi, con guizzi, ammiccamenti e finte. La nostra intenzione non era mummificare le conoscenze che ci sono state tramandate, il nostro obiettivo era quello di mantenere in vita i balli con rigoroso rispetto e senza stravolgimenti. 

 

L.B. cosa può significare un ballo? 

G.P. già dal medioevo osteggiati duramente, soprattutto dalla chiesa, che ne temeva gli aspetti erotici e dionisiaci, i balli continuarono ad essere praticati a livello popolare e tramandati di generazione in generazione. Non esisteva separazione, bensì continuità tra vita domestica e lavorativa (lavoro agricolo, s’intende) e fusione della vita sociale con i ritmi della terra che, durante i cicli produttivi, conduceva ai riti e alle feste di comunità. Si ballava nelle case, soprattutto durante il Carnevale e per i cicli agricoli nella bella stagione. Il ballo è infatti il mezzo primario per riconoscersi e rappresentarsi  nel mito arcaico del gruppo, è apertura verso l’altro ma anche potente mezzo di riflessione su di sé.

 

Gino Pennica dal 1975 ricerca manifestazioni e espressività popolari tradizionali dell’Emilia; ha contribuito alla riscoperta, rifunzionalizazzione e ricostruzione della Piva Emiliana e dei Balli Staccati dei territori reggiani, modenesi e bolognesi insieme ai gruppi musicali di cui è fondatore: Pivenelsacco, Ariva la Piva, Bounanot Sunador, Balarèin dla Ligéra, Orchestra La Rumorosa. Tra le sue pubblicazioni: Con la guazza sul violino, tradizioni musicali nella provincia di Modena, Edizioni Squilibri , Roma, 2009; Cento Rami musiche colte e popolari per pive emiliane, RadiciMusic Records, Arezzo, 2011.

Franco Calanca è un artigiano scrupoloso e perennemente insoddisfatto, sempre alla ricerca di quel pelino in più che lo avvicini alla perfezione. Nasce come ricercatore/interprete della musica tradizionale dell’Appennino emiliano e, come tale, si pone all’opera per ricostruire lo strumento Piva emiliana (di cui si erano pressoché perse le tracce) riportandolo a nuova vita anche sotto il profilo del repertorio, anch’esso, per la gran parte, recuperato. Si dedica quindi alla cornamusa scozzese, di cui è un naturale e finissimo interprete, e comincia e costruire i suoi primi esemplari raggiungendo, oggi, livelli qualitativi di assoluta eccellenza.

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